Il termine “dis-attivazione” nel titolo riprende quello di un testo, Creazione e anarchia di Giorgio Agamben, sul concetto dell’atto di creazione in senso an-archico. Nel suo lavoro, Agamben descrive un’azione disattivatrice che rende inoperose le operazioni del funzionale, del pragmatico e del necessario, aprendo all’umano nuove possibilità. Si tratta di un altro modo dell’essere in incessante oscillazione, senza origini e senza fini. I concetti di impotenza, di inoperosità e di povertà, sviluppati da Agamben in base alle formulazioni di Deleuze, di Aristotele, di Heidegger e di Benjamin, incarnano, in quanto categorici, ontologie già offerte dal mondo all’essere umano, le quali sono molto diverse da quelle generalmente accettate. A questo riguardo sarà opportuno osservare un’ opera di disattivazione dal punto di vista estetico e inquadrare le pratiche disattivanti in una cornice concreta.   

Agamben interroga ciò che è rimasto non detto nell’idea deleuziana dell’atto di creazione come atto di resistenza (1). Per essere più precisi, il potere di Deleuze si esercita attraverso la resistenza alla morte e anche alla resistenza alla propagazione delle informazioni, cioè al sistema di controllo. Deleuze dà al termine “resistere” il significato piuttosto corrente di opporsi a una forza o a una minaccia esterna, mentre Agamben pensa che l’atto di resistenza debba essere interno all’atto di creazione. La resistenza, a parere di Agamben, agisce come un’istanza critica che frena la potenza verso l’atto, impedisce che essa si risolva ciecamente nell’atto (2). Colui che possiede una potenza, può metterla in atto o meno. In altre parole, ogni singola opera compiuta poteva anche non esser fatta e l’atto di creazione è frutto di una complessità nella quale impotenza (potenza-di-non) e potenza (potenza-di) si uniscono e si accordano. La potenza-di-non disattiva l’abilità ma resta fedele all’ispirazione. Ecco perchè l’artista ispirato è senz’opera. Da un parte, la potenza-di-non non può essere trasformata in un principio autonomo che finirebbe con l’ostacolare colui che possiede una potenza. Dall’altro, senza resistenza di potenza-di-non, l’arte decadrebbe a esecuzione, procedendo con falsa disinvoltura e senza ispirazione verso la forma compiùta. Dunque, l’opera risulta sempre da due principi intimamente congiunti e ogni potenza umana è costitutivamente impotenza (3). Ciò significa che, la maestria non è perfezione formale, ma, al contrario, è salvezza dell’imperfezione nella forma perfetta. La tela del maestro possiede il sigillo della sua contingenza, ciò che poteva non essere o poteva essere altrimenti. Si tratta di quel tremito leggero, impercettibile nella stessa immobilità della forma. Presente in ogni capolavoro, la resistenza della potenza di-non si segna nell’opera come l’intimo manierismo. La potenza-di-non, attraverso la sua resistenza, espone la forma, come la maniera mette lo stile in risalto (4). Agamben da l’esempio dell’Annunciazione di San Salvador di Tiziano  firmando quest’opera con una formula inconsueta: “l’ha fatta e rifatta”. Questo tremito di Tiziano è la suprema maestria che disattiva quanto preesistente nelle potenzialità dell’atto. Per questo la potenza-di-non è l’inoperosità della potenza-di, ciò che risulta dalla disattivazione dello schema potenza/atto. Sospendendo il passaggio all’atto, l´impotenza conferisce allo stesso tempo piena libertà al soggetto e lascia trasparire une piena esibizione della potenza. 

Nel lavoro di Agamben, il termine “inoperosità” non cessa di tornare in queste reflessioni sull’atto di creazione. Egli riprende l’ipotesi di Aristotele che l’uomo sia un animale essenzialmente inoperoso, cioè il vivente senz’opera (p.5). Si tratta di un confronto dell’uomo con lo scultore o il calzolaio. Mentre ogni artigiano possiede la sua opera e l`attività, invece nessuna opera e nessuna vocazione possono definire l’uomo. Agamben ci propone di pensare conseguentemente l’uomo come il vivente di cui la vocazione è l’inoperosità. A differenza della formulazione moderna dell’inoperosità come riposo o inerzia, noi la possiamo pensare come una prassi che, nell’opera, espone e contempla innanzitutto la propria potenza di agire e di non agire (6). La vocazione o l’opera propriamente umana è quindi questa vita contemplativa che si rende inoperosa in tutte le sue operazioni e funzioni specifiche del vivente. Rendendo inoperose le opere, l’uomo fa  “girare a vuoto” le cose, cioè disattiva le funzioni biologiche e sociali per contemplarle come tali e aprirle ad un nuovo, possibile uso. Dis-attivazione, in questo senso, sgombera dimensioni come quella politica ed artistica dal paradigma utilitario e normativo. Nel compito della disattivazione del funzionale e del pragmatico, la poesia è il modello per eccelenza. Poetare significa rendere inoperose le funzioni comunicative e informative nel linguaggio per contemplare la sua potenza di dire. In questo senso, la poesia è la contemplazione della lingua che si apre ad un nuovo uso. Allo stesso modo, Fontana di Marcel Duchamp è la contemplazione dell’arte, per la ragione che l’artista aveva disattivato tutte le funzioni della machina artistica. Secondo Agamben, Duchamp non opera nemmeno come un’artista, ma come filosofo, critico, un semplice vivente, proponendo i suoi atti esistenziali (7). Fontana non è l’opera, perché si tratta di un qualsiasi oggetto d’uso, un orinatoio, presentato in un museo come un’opera d’arte. Non vi è in alcun modo l’operazione artistica o la produzione, perché questo orinatoio è già stato prodotto prima dell’inizio dell’atto di creazione. Finalmente, non è Duchamp come artista che ha prodotto questo orinatoio. Fontana non ha nessun valore artistico, a parere di Agamben, poiché, disattivando la macchina opera-artista-operazione, il ready-made non ha più luogo, né nell’opera né nell’artista, né nella creazione. L’unico valore acquisito dal ready-made è quello d’essere esposto nel museo. E, tuttavia, credo che si può percepire Duchamp come un’artista se si considera il suo gesto concettuale come una proprietà costitutiva del ready-made. “Gesto concettuale” vuol dire la descrizione dell’atto di creazione di Duchamp con spiegazione del motivo per cui è stato fatto. Duchamp ha scelto un orinatoio togliendogli il valore d’uso con un nuovo titolo, Fontana, e un nuovo punto di vista; quindi, la creazione di Duchamp consiste in un nuovo pensiero dell’oggetto della vita quotidiana. È questo gesto disattivatore che lo spettatore dovrebbe giudicare come un’opera d’arte. Rendendo inoperosa l’arte, Duchamp espone e contempla innanzitutto la sua potenza. Sospeso nell’atto di creazione del ready-made, l’arte riposa in se stessa e si apre agli spettatori come tale. In questa prospettiva, il valore artistico della Fontana consisterebbe nel sua inoperosità, cioè nel contemplare la contemplazione dell’arte di Duchamp che aveva disattivato tutte le funzioni specifiche della sua opera.

Un altro concetto di disattivazione sviluppato da Agamben in Creazione e anarchia è la povertà. Per Agamben pensare la povertà significa pensarla non soltanto in relazione all’avere, ma anche e sopratutto in relazione all’essere. Si tratta di una categoria ontologica già offerta dal mondo all’essere umano. È a partire dal concetto di povertà di Heigegger et di justizia di Benjamin che Agamben arriva alla sua definizione: “La poverta è la relazione con un inappropriabile; essere povero significa tenersi in relazione con un bene inappropriabile” (8). Inappropriabile vuol dire qualcosa che non può diventare possesso. Tenersi in relazione con qualcosa di inappropriabile significa usare, ma non nel significativo di utilizzare, cioè non comporta una consumazione del bene, né una qualche forma di godimento. Il saggio di Agamben dedicato ai frati francescani è un esempio di questa modalita di relazione con l’inappropriabile. I teorici francescani rifiutavano la proprietà e cercavano di assicurare legittimità a una vita al di fuori del diritto. Essi avevano potuto dimostrare che è possibile usare qualcosa senza averne non solo la proprietà, ma nemmeno il diritto d’uso. I francescani usavano delle cose di cui hanno bisogno senza averne alcun diritto come il cavallo mangia l’avena. In questo modo, essi avevano separato l’uso dalla proprietà e messo in discussione l’ordine stesso del diritto, in quanto fondato sulla possibilità dell’appropriazione. Al fine di mostrare che gli elementi inappropriabili sono di aspetti del reale dove vi sia già in atto qualcosa del genere, Agamben fornisce i tre esempi: il corpo, la lingua e il paesaggio. Cercherò qui di osservarle.

La natura contradditoria della relazione con il corpo, di cui non è possibile appropriarsi, consiste nell’invadenza di una “improprietà”, come se il mio corpo mi diventasse estraneo e inappropriabile (9). Nell’esperienza empatica, io non provo alcuna gioia o tristezza originaria, ma questa ha il carattere di rendere viva una volta come nel mio vissuto non originario. Ciò significa che, vivendo nella gioia o tristezza nell’altro, il proprio corpo  proietta un’ombra estranea. Agamben osserva i lavori di Husserl e di Lips sul problema della percezione del proprio corpo  e conclude che nessuno dei suoi tentativi di risalire all’originaria del corpo risulta alla fine convincente. D’altra parte, il saggio di Levinas sulle esperienze corporee come la vergogna, la nausea e il bisogno raggiunge il suo punto critico nella natura inappropriabile del corpo. Se, nella nudità, proviamo vergogna, è perché il nostro corpo messo irreparabilmente a nudo ci appare come la cosa più estranea che vogliamo nascondere. La nostra presenza a noi stessi è vergognosa. Questa esperienza è ancora più evidente nella nausea, dove quanto più i conati di vomito mi consegnano all mia sola e ineluttabile realtà, tanto più essa mi diventa inappropriabile. Una presenza rivoltante di me stesso proprio a me stesso estraneo mi appare insormontabile. Nel momento in cui provo un impulso incontenibile a orinare, io sono inchiodato a me stesso senza scampo, il corpo mi diventa anche estraneo e inappropriabile. L’istante del bisogno mette il proprio corpo fra tensioni polari le quali è incapace di risolvere. E così Agamben tira le somme che il nostro corpo ci è dato originariamente come la cosa più propria, ma assolutamente inappropriabile (10).

L’inappropriabile, simile al corpo, si manifesta anche nella lingua. Infatti, la lingua materna ci appare come ciò che vi è di più intimo e proprio. E, tuttavia, la lingua avviene all’uomo dall’esterno, è piuttosto imposta all’infante. In alcuni casi, un processo di trasmissione e di apprendimento della lingua materna pùo essere arduo e penoso, come testimoniano gli errori di pronuncia, i balbettamenti, le improvvise dimenticanze. Mostrando l’impossibilita di una padronanza perfetta, la lingua si riferisce a un uso comune condiviso da altri e oggetto. A questo punto, il poeta cerca di padroneggiare e far propria la lingua, cioè divenire il suo espropriatore per eccellenza. Nel suo atto artistico, lo scrittore deve abbandonare le convenzioni e l’uso comune e rendersi straniera quella lingua familiare. La lingua materna ci appare nelle forme di una “patria”, mentre un artista oscilla tra patria e  estraneità per dominarla. Agamben dà un esempio di questa “espropriazione” nei lavori di Goethe, osservando l’evidente trasformazione della lingua nelle opere tarde (11). In modo analogo, negli ultimi romanzi di Melville si può notare come la forma stessa del romanzo muove verso altri generi meno leggibili, come il trattato filosofico. Tensioni del genere s’incontrano anche nell’opera degli artisti come Tiziano o Michelangelo. Già i critici avevano catalogato le tarde pitture di questi artisti come manierismo. Esso definisce un campo di forze polari, tese fra stereotipia e unicità, fra ripetizione e estraneità. Il manieristo conosce uno stile a cui si vuole a ogni costo aderire e cerca, invece, di evitarlo per guadagnare un terreno proprio e un’identita. In questo caso, lo stile si riferisce a una negligenza sublime o un dimenticarsi nel proprio, mentre la maniera è un ricordarsi nell’improprio. Questi due poli, l’appropriazione e la perdita, si manifestano non soltanto nel gesto del poeta, ma in ogni uomo parlante rispetto alla sua lingua e in ogni vivente rispetto al suo corpo. In questo senso, usare la lingua o il corpo significa un’oscillazione senza origini e senza fini, un peregrinare tra una patria e un esilio, cioè abitare. Come scrive Marìa Zambrano, l`esilio è territorio mentale in più lingue e vivere in una molteplicità dei tempi (12). L’uomo scopre nell’esilio una seconda patria, una patria pre-natale, che attualizza una rivelazione dell’essere. Il tempo della perdita dell’appartenenza porta l’uomo alla sua verità ontologica prima che storica. Si tratta della sospensione esistenziale in cui le categorie logiche sono annullate e la totale nudità dell’essere si espone al di fuori della storia. L’esiliato è quindi in una continua rinascita, che lo conduce nel luogo della possibilità dell’inizio (13).   

Infine, il paesaggio si presenta come un terzo esempio di inappropriabile. Agamben tenta di definire il paesaggio a partire dal suo rapporto con l’ambiente e con il mondo. Nei Concetti fondamentali della metafisica di Heidegger c’è una descrizione di un’ape che, cominciando il miele, si recide l’addome e che, nonostante ciò, non interrompe la relazione col suo disinibitore (14). Si tratta di uno stordimento dell’animale davanti ad una serie di elementi che i suoi organi ricettivi hanno selezionato nell’ambiente. E concentrando necessariamente la propria attenzione sugli elementi disinibitori, l’animale è chiuso nel suo ambiente. Esso, a differenza del’uomo, è incapace di sospendere e disattivare la sua relazione con questi disibinitori e di percepire come qualcosa che esista oggettivamente in sé e per sé.  Per questo, il mondo si è aperto all’uomo solo attraverso l’interruzione e la nullificazione del rapporto immediato con l’ambiente. Ciò significa che l’apertura al mondo non è radicalmente diverso rispetto al non-aperto dell’animale. Tramite la contemplazione dell’uomo, tutti gli elementi che compongono il paesaggio non erano già più parte di un ambiente animale. Essi sono ora disattivati uno ad uno sul piano dell’essere e percepiti in una nuova dimensione. Il paesaggio come l’essere non è più animale, né il mondo umano, che è anche sospeso e disattivato. L’uomo contempla il paesaggio e soltanto paesaggio. In questo caso, se il mondo era l’inoperosità dell’ambiente animale, il paesaggio è inoperosità del mondo, cioè è inoperosità dell’inoperosità. L’essere, in uno stato di paesaggio, è ontologicamente neutro e divenuto perfettamente inappropriabile. Nella formulazione di Benjamin, il paesaggio è compatibile con una visione del giusto che il mondo ci offre (15). Secondo Benjamin, la giustizia è una condizione di un bene, che non può diventare possesso. È a partire da questa definizione, il paesaggio è giusto di per sé perché senza padroni e privo del diritto di proprietà. È la dimora nell’inappropriabile come forma di vita. Proprio per questo Agamben conclude che l’uomo nel paesaggio è finalmente a casa, cioè a casa dell’essere (16).  

È possibile pensare, in questa prospettiva, l’atto di creazione come un atto ontologico dove l’impotenza, l’inoperosità e la povertà si presentano come elementi costituenti dell’essere. Questo modo d’operare assume il processo dis-attivatore del paradigma tecnocratico per girare a vuoto le funzioni del vivente. Disattivare l’azione vuol dire un determinato agire senza arché, cioè senza principio e senza governo (17). Arché, come l’origine, comanda e governa ciò che ha posto in essere. L’atto di creazione quindi dovrebbe essere costitutivamente an-archico per liberare l’essere vivente da ogni destino biologico o sociale e da ogni compito predeterminato. Nell’attimo del creare in una strenua resistenza alla sincronizazione dei sistemi pragmatici e normativi, un’opera anarchica si apre in possibilità come qualcosa che mette l’uomo in una nuova descrizione ontologica dell’essere. Si tratta dell’anarchia del potere in cui costruzione e distruzione coincidono senza residui. Questa dimensione non può avere una vera fine ed è per questo sempre in atto di finire. Allo stesso tempo, l’anarchia del potere non conosce un principio o un inizio, e tuttavia, proprio per questo, sempre in atto di ricominciare. Di qui un incessante bisogno di innovazione nell’azione an-archica. A questo riguardo Agamben sottolinea il carattere anarchico della società capitalista che mostra la sua parassitica dipendenza dalla teologia cristiana (18). Ciò che funziona come paradigma dell’anarchia capitalista è la cristologia, ossia una parte fondamentale della teologia cristiana che studia e definisce la natura umana e divina di Gesù Cristo. Nella Chiesa, c’è una controversia particolare sul’arianesimo che afferma il Padre assolutamente anarchico, mentre il Figlio è nel principio, poiché ha nel Padre il suo fondamento. Pertanto, ciò implica che il Figlio di Dio sia un essere che partecipa della natura di Padre, ma in modo inferiore e derivato. Egli era stato creato da Dio all’inizio del tempo. Contro questa tesi eretica, la Chiesa afferma con chiarezza che anche il Figlio è “anarchico” e, come tale, regna insieme col Padre (19). La religione cristiana si fonda sull’assunto che la storia dell’umanità e del mondo è essenzialmente finita. Ma, in questo tempo, la Chiesa proclama un altro tempo in cui ogni istante annuncia la fine imminente della vita sulla terra, fa esperienza di Giorno del Giudizio, che è però anche un nuovo inizio. Ciò significa che il cristianesimo non cessa mai di iniziare, ma allo stesso tempo è sempre in atto di finire. In questo senso, il capitalismo eredita e spinge all’estremo il carattere anarchico del cristianesimo. La religione capitalista proclama uno stato di crisi permanente che significa etimologicamente “giudizio definitivo”. Il capitalismo non ha alcun fine e, per questo, non cessa mai di finire. Esso è intimamente an-archico, poiché prassi ed economia capitalistica non hanno fondamento nell’essere. Il capitale produttore di merci si alimenta fittiziamente del proprio futuro. Ciò che fa del capitalismo una religione è credito che si sostituita a la fede in Dio. E per questa religione, la decisione di sospendere la convertibilità in oro significa la purificazione e la cristallizzazione della propria fede, cancellando ogni referente esterno. Un simbolo per dimostrare che il cristianesimo e il capitalismo sono strettamente intrecciati, forse, potrebbe essere Cristo Petrolero di Fernando Fernández, una scultura in ferro in Barrancabermeja, Colombia (20). Situato davanti alla più grande raffineria di petrolio del paese, Cristo era prodotto per un lavoratore della compagnia petrolifera per benedire Barrancabermeja e dare vita alla palude. In questo senso, è un’opera della religione capitalista che puntella la sua fede sulla fede del cristianesimo.    

Che Cristo sia anarchico significa che essere e agire ora separano le loro strade. Nel mondo classico ontologia e prassi erano strettamente congiunte, mentre oggi l’azione umana non è piu fondata nell’essere. Essa è libera e condannata al caso, affermando l’anarchia del potere. Ma un governo ordinato del mondo sarebbe impossibile in questo dispositivo assolutamente anarchico e dovrebbe essere qualcosa che può porre una limitazione di potenza, cioè qualcosa che puo comandare. In questo caso, Agamben riprende l’ipotesi di Nietzche, secondo cui comandare significa in realtà volere (21). La filosofia greca aveva al suo centro la potenza e la possibilità. Per questo, l’uomo antico è un essere di potenza, cioè l’uomo che può. In contrasto con esso, la filosofia moderna con la teologia cristiana pongono al proprio centro la volontà. L’uomo moderno è quindi un essere di volonta, un essere che vuole. Il passagio dalla sfera della potenza a quella della volontà si riferisce al problema dell’onnipotenza di Dio. Secondo un dogma del cristianesimo, Dio è onnipotente, cioé può tutto, assolutamento e incondizionatamento tutto (22). Da ciò ne segue che egli potrebbe fare qualsiasi cosa nel male o nell’irrazionale. Per arginare lo scandalo dell’onnipotenza divina e  rimuoverne l’ombra oscura, i teologi divisero la potenza in potenza assoluta e potenza ordinaria. La potenza assoluta è ciò che riguarda la potenza considerata in se stessa, in astratto. La potenza può volere e, una volta che ha voluto, esse deve obbedire al suo comando. Si tratta qui della potenza ordinaria. In altre parole, Dio può fare tutto, ma come l’uomo egli ha imposto il comando alla potenza con la sua volontà. In questo modo, la volontà pone un limite al caos e all’immensità dell’onnipotenza, comandandola. Alla sfera dei dispositivi tecnologici, il soggetto crede di comandare, ma non fa in verità che obbedire nel gesto stesso con cui dà un commando. Egli preme dei tasti definiti come comandi, obbedendo a un commando iscritto nella stessa struttura del dispositivo. Nell’atto di volontà, tuttavia, un soggetto non obbedisce a un’ingiunzione divina o a una capacita trascendente per produrre opere. Dopotutto è una questione di uso di corpo che un soggetto scopre come un mondo che lo circonda, facendo esperienza di sé.

Vorrei ora concludere la mia breve revisione degli atti disattivanti nell’atto di creazione, soffermandomi un momento sul concetto di opera d’arte. Sulla base dei termini di Aristotele nell’opera, Agamben parla di conflitto storico dell’arte che ha portato alla crisi dell’arte contemporanea (23). Nella Grecia classica, i greci non tenevano in molta stima l’artista. Ai suoi occhi l’artista è un essere costitutivamente incompiuto che ha il suo fine nell’opera. L’attività produttiva o energeia non risiede nell’artista, ma nell’opera. L’atto del costruire risiede nella casa, perché il fine dell’architetto è costruire la casa. I greci, tuttavia, apprezzavano l’importanza delle attività improduttive, come il pensiero, la visione, la contemplazione. Nelle attività senz’opera, il soggetto possiede perfettamente il suo fine non fuori di sé e pertanto la sua prassi è in qualche modo superiore all’attività produttiva. A partire dalla fine del mondo classico, l’artista diviene come il teoreta e rivendica la padronanza della sua attività creativa. Attraverso un lento processo questa trasformazione trova il suo modello nella creazione divina. Nella teologia medievale si fa strada la concezione secondo cui l’opera risiede nella mente dell’artista in forma di idea. Dio ha creato il mondo secondo la sua idea. Allo stesso modo, l’architetto ha creato la casa secondo il modello che esisteva nella sua mente. È da questo paradigma che deriva l’indipendenza dell’artista rispetto all’opera. L’attività produttiva, energeia, risiede ora nell’artista, mentre la sua opera si trasforma in un residuo, in qualche modo non necessario, del genio, dell’artista. Negli ultimi decenni del XIX secolo appare una speciale attenzione da parte degli artisti per l’ atto di creazione in se stesso. Si tratta dei movimenti artistici e letterari dei simbolisti, estetisti, decadentisti, in cerca di un’arte pura. Gli artisti e i poeti cominciano a celebrare la loro attività creativa come un vero e proprio rituale liturgico. Сosì come in un servizio di adorazione di Gesù, l’azione artistica agiva per il semplice fatto di essere celebrata, indipendente da ogni significato sociale ed efficace. Essa era una dimensione perfomativa in cui sembrava essere in questione la salvezza spirituale dell’artista. Con gli usi delle avanguardie del Novecento e delle loro derive contemporanee, l’azione dell’artista si emancipa interamente dal suo tradizionale fine produttivo e pretende di presentarsi come opera. L’opera d’arte è abolita in nome di qualcosa che esige di essere realizzato spesso non in un’opera, bensì nella vita. Tra tali movimenti artistici possono essere menzionati, particolarmente, l’Internazionale situazionista e la performance. In questo modo, l’arte oggi si presenta come un’attività senz’opera, mentre artisti e mercanti continuano a esigerne il prezzo. Agamben sottolinea che il motivo per cui il luogo dell’opera d’arte è andato in pezzi è che un legame tra l’opera, l’artista e l’operazione era disattivato (24). Si tratta di una “macchina artistica” della modernità che funziona come un nodo borromeo. Non è possibile svincolare uno dei  tre elementi che lo compongono senza far esplodere l’intero nodo. Vorrei suggerire a questo punto che non è importante se una “macchina artistica” è disattivata o non fino a quando avremmo a discernere qualità estetiche e non estetiche dell’opera, dell’artista o della creazione. In altre parole, se qualche opera d’arte non ha bisogno di un oggetto artistico, può però possedere determinati valori che si possono apprezzare. La presenza di suoi valori implica già un certo carattere artistico poiché vengono attribuiti ad un’opera in relazione all’artista che l’ha realizzata. Di conseguenza, mettere in discussione l’ontologia dell’opera ha senso quando questo approccio favorisce la razionalizzazione estetica e lo sviluppo di criteri per il giudizio di gusto (25). Un esempio di questo approccio sarebbe considerare che ogni opera d’arte, come atto di disattivazione, può essere giudicata sulla base del suo valore intrinseco che è proprio la “dis-attivazione”, anche se quest’arte si presenta come un’attività senz’opera. La “dis-attivazione” come la trasgressione delle regole artistiche stabilisce nuovi standard di creazione artistica all’interno della nuova scala di apprezzamento. In questo caso, un atto di dis-attivazione nell’arte significa trasformarsi in una nuova forma di trasgressione fruttuosa che si puo ammirare per la sua imprevedibilità e sensazione.

Note:

  1. Deleuze, Gilles, Qu’est-ce que l’acte de création ?  https://www.youtube.com/watch?v=2OyuMJMrCRw, la conferenza tenuta il 17 maggio 1987.
  2. Agamben, Giorgio, Creazione e anarchia, Neri Pozza Editore, 2017, p. 39.
  3. Ivi, p. 41.
  4. Ivi, p. 42.
  5. Ivi, p. 47. Agamben riprende un passo dell’Etica Nicomachea dove Aristotele si pone il problema di quale sia l’opera dell’uomo. 
  6. Ivi, p. 50.
  7. Ivi, p. 25.
  8. Ivi, p. 68.
  9. Ivi, p. 73.
  10. Ivi, p. 76.
  11. Ivi, p. 78.
  12. Zambrano, Maria, L’uomo e il divino, cit., p. 181.
  13. Zambrano, Maria, Lettera sull’esilio, in Per abitare l’esilio, Scritti italiani, Firenze, Le Lettere, 2006.
  14. Agamben, Giorgio, Creazione e anarchia, Neri Pozza Editore, 2017, p. 83.
  15. Ivi, p. 66. Agamben fa affidamento sul concetto di giustizia di Benjamin nei Appunti per un lavoro sulla categoria di giustizia.
  16. Ivi, p. 87.
  17. Ivi, p. 93.
  18. Ivi, p. 127.
  19. Ivi, p. 131.
  20. Di più sull’opera Cristo Petrolero di Fernando Fernández https://www.barrancabermeja.gov.co/publicaciones/385/cristo-petrolero/
  21. Agamben, Giorgio, Creazione e anarchia, Neri Pozza Editore, 2017, p. 107.
  22. Ivi, p. 110.
  23. Ivi, p. 13.
  24. Ivi, p. 20.
  25. Di più sulla razionalizzazione estetica nel mio lavoro in francese Les Critères du jugement de goût de l’art contemporain https://postulat.org/fr/category/par-theorie/les-criteres-du-jugement-de-gout-de-lart-contemporain/